La pagina del diario del campo in Etiopia di Alice
2 gennaio 2018, ore 6.30. La zanzariera mi sfiora la fronte e la gamba di Caterina spinge contro la mia. È ora di svegliarsi e andare a messa. Mangio del pane soffice col miele e bevo il caffè etiope bollente, carica per un nuovo giorno a Tarcha, nel Dawro Konta. Stamattina lavori manuali: non sono abituata a vangare e mi sono venute piccole vesciche sul palmo della mano.
C’è polvere rossa ovunque e la sento tra i capelli, sulla pelle del viso e delle braccia, nei vestiti, nelle scarpe e nei polmoni.
Poco dopo arrivano i bambini della scuola dell’infanzia interna alla missione. Centinaia di piccole manine scure toccano timide la mia pelle. Con la meraviglia negli occhi cercano di capire come sia possibile che ci siano persone interamente bianche. Sento tirare la manica: un bimbo la sta alzando per capire fin dove arriva il bianco e inizia il nero. Ci conosciamo così: mano a mano, palmo a palmo, tocco a tocco.
Salam. Saluto gli abitanti del villaggio con una stretta di mano e la mia spalla che batte contro la loro. Il tempo qui è diverso: non c’è il kronos ma il kairos, quindi vola ed è già ora di andare. Destinazione: Waka. Salgo con gli altri sulla jeep di Bagascho e abba Renzo: canti di Max Pezzali a squarciagola interrotti da qualche scossone: non ci sono strade e le tante buche ci fanno sobbalzare più volte sui sedili. Tutti stretti, vicini come non mai, sudati e impolverati.
Arriviamo dopo circa due ore che mi sembrano un minuto ma anche un giorno intero. Non facciamo in tempo a scendere che tutto il villaggio ci circonda chiudendoci in un cerchio strettissimo. Ed è proprio con questo contatto al quale non siamo abituati in Italia che ci sentiamo finalmente a casa. Sei o sette ragazze mi toccano i capelli meravigliate di quanto siano diversi dai loro e in meno di cinque minuti mi ritrovo piena di treccine e con delle amiche etiopiche, anche se non parlano la mia lingua, comunicano tutto quel che serve dirsi.
Nel frattempo sento altre mani che sfiorano con delicatezza le mie e appena gli faccio cenno di “sì che possono toccarmi” iniziano a sfregare il mio palmo e mi fanno toccare il loro, ruvido, increspato, pieno di storia, lavoro e fatica. La mia mano morbida e liscia contro la loro. E ci conosciamo così, qui in Etiopia.
Ho imparato un nuovo modo di amare, di stare con l’altro, di riscoprire me stessa.
È stata una lunga giornata difficile da raccontare, difficile da rivivere e bellissima proprio per questo.
Mi rimetto sotto la mia zanzariera pronta per dormire, con la gamba di Caterina vicina, mi addormento pensando che “c’è un mare di gente d’amare”.
Tossimmo.