Condivisioni da un campo missionario a Istanbul del 2019, che ha lasciato il segno nel cuore di una nostra volontaria…
Francesca è una volontaria che nel 2019 ha partecipato al campo missionario a Istanbul. Ha voluto condividere sulle pagine del settimanale cattolico La Libertà della Diocesi di Reggio Emilia qualche riflessione su questa bella esperienza che ha vissuto, e noi la condividiamo con voi. Speriamo di poter presto tornare a vivere la missione da vicino, attraverso i campi, che al momento – per colpa del Covid-19 – sono ancora in stand by.
Testimoni e profeti
Un diario di cuoio un po’ spelacchiato e con qualche intarsio decorativo in copertina conserva con parsimonia la memoria della missione in Turchia del 2019. In prima pagina l’immancabile adesivo, come in ogni diario di bordo che si rispetti, attaccato dalla compagnia aerea sul mio bagaglio, tuttavia le facciate successive sono il calco di un viaggio più profondo, di una missione che vuole incontrare volti e scoprire storie. Il quadernetto ricorda, meglio di quanto la mia memoria possa fare, le parole dei testimoni incontrati a Istanbul, laici ed ecclesiastici, alcuni dei quali turchi, altri immigrati che sono presenza di cristianesimo in Turchia. Proprio facendomi ispirare da estratti delle loro parole, vi racconto come un cristiano possa essere testimone della fede nello stato con il più basso numero di cristiani al mondo, dopo l’Afghanistan.
«Questa è la mia patria, il Signore mi ha pensato qui per essere sale, per essere luce».
Parlando di presenza cristiana in una terra oggi prevalentemente islamica, dobbiamo citare Orontes, sacerdote armeno di Istanbul, che ci ha confessato le difficoltà della sua comunità cristiana impostogli dallo stato turco; nonostante non sia facile fare i conti con la tragica memoria del genocidio, Orontes è sicuro che la Turchia sia la sua terra e che lui e la sua gente debbano rimanere lì per essere sale e luce, speranza e salvezza nel luogo in cui il Signore li ha pensati.
«La vera fede non può essere una spada identitaria, ma deve essere la radice di quell’albero che ti permette di condividere i frutti con l’altro. Il problema non è il dialogo cristiano-musulmano, ma il dialogo con il tuo vicino, bisogna filare tessuto umano. Le apparenze religiose devono essere un surplus, non una spada di guerra ma un ago paziente che sa creare tessuto sociale».
Claudio Monge, domenicano a Istanbul, esperto di islam, ha decretato difficile la comunicazione con questo mondo perché diviso al suo interno in tante correnti. Il cammino interreligioso nella realtà turca è ancora in stato embrionale, soprattutto nei confronti della maggioranza islamica. Il dialogo che Claudio propone è quello semplice e quotidiano con il proprio vicino fatto di rispetto, ascolto e gesti concreti; ad esempio la sua comunità ha aperto le porte della propria chiesa ai musulmani curiosi di avvicinarsi ai fratelli maggiori cristiani. Invita così i giovani universitari turchi a conoscere la Chiesa, cercando di intrecciare tessuto umano sulla base della fede comune in Dio. La sua testimonianza, fatta di esempi positivi, ci ha lasciato l’idea di un futuro fatto di speranza e convivenza pacifica tra cristiani e musulmani che oggi può sembrare un’utopia.
«Non ci interessa la nazionalità, we are Christian and this is enough».
Voce dei catecumeni presso la Chiesa di Yelsilkoy. Al termine della testimonianza il quadernino riporta un commento personale: «Impressionante la forza, la convinzione, la grinta con cui si professano». Scontrarsi quotidianamente con una realtà che non accetta che un turco possa essere cristiano non è semplice, ma la loro posizione è sicura e quotidianamente ribaltano lo scontato pregiudizio che un turco possa essere solo musulmano. La presenza di una comunità prevalentemente islamica ci ha messo di fronte ad un cambiamento di prospettiva di 180⁰: da maggioranza a minoranza. Proprio qui si nota una differenza nel modo di vivere e sentire la fede rispetto a noi. A tale proposito la comunità di Yesilkoy, presso la quale siamo stati ospitati, ci ha fornito testimonianze forti di conversioni dall’Islam al Cristianesimo, con tutte le difficoltà e i rischi che esse hanno comportato. La fede autentica che traspare dalle loro storie ci ha lasciato interrogativi e provocazioni da portare a casa.
Se il dialogo interreligioso risulta ostico, quello ecumenico è un ponte ormai consolidato in Turchia. Un esempio di ciò l’abbiamo sperimentato nella messa di ordinazione di un vescovo caldeo nella quale erano presenti sacerdoti della maggior parte delle confessioni cristiane presenti a Istanbul: greci-ortodossi, cattolici-siriaci, cattolici-latini, armeni, caldei e in più il rabbino della città. Così si spiega durante l’omelia: «Il punto vincente è ammettere che l’ecumenismo sia un cammino in perdita che avanza nella misura in cui ci si lascia guidare dalla gratuità: non pretendere un passo avanti da un’altra confessione, ma fare qualcosa insieme per riconoscersi “fratelli in Cristo”». Riguardo al dialogo ecumenico, Istanbul risulta essere la città più adatta al mondo: superare le differenze culturali e dottrinali, così piccole di fronte alla bellezza del sentirsi uniti in Cristo.
Orontes, Claudio, il vescovo caldeo, i catecumeni sono stati uomini e donne capaci di testimoniare con parole e racconti di vita cosa significa essere cristiani. Sono stati, e continuano ad essere, annunciatori di verità e profeti incarnati di un dio che non si lascia scoraggiare dalle difficoltà, dalla paura di essere minoranza.
Il diario, autore dell’articolo, è oggi rilegatura di fogli di brutta di pensieri, riflessioni e appunti per testimonianze e articoli che fanno di me un portavoce di quanto è la vita in Turchia, perché lo scopo della missione è, oltre quello di essere presenza in territorio straniero, come dice Papa Francesco, quello di essere occhi e voce di coloro che si è incontrato in terra di missione, affinché possiamo essere noi qui e ora testimoni di una vita autentica.